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Siria, fedeli fino al martirio. Cristiani «terrorizzati», ma davanti ai tagliagole «portiamo la croce con coraggio»
Siria, fedeli fino al martirio. Cristiani «terrorizzati», ma davanti ai tagliagole «portiamo la croce con coraggio»

Aleppo, Homs, Damasco. È questo il sentimento dei cristiani di tutta la Siria dopo le nuove stragi dello Stato islamico. Eppure non è l’angoscia a prevalere «nonostante la tragedia»

 

Quando Nino Youkhana, cristiano assiro sulla trentina, ha appreso dalla televisione che i jihadisti avevano sferrato un attacco nel nord della Siria, si è incollato al telefono. Youkhana abita in Libano ormai da due anni ma è originario di Tal Jazeera, uno dei villaggi invasi, e suo zio vive ancora lì. Il cellulare ha squillato a vuoto a lungo, fino a quando una voce ha risposto in un arabo stentato: «Siamo lo Stato islamico». E ha riagganciato. «Tutti i miei parenti sono stati rapiti, le loro case bruciate, così come le chiese. A parte quella prima telefonata, non ho più saputo nulla. Vogliamo solo capire che cosa sta succedendo», si dispera. Youkhana non è l’unico a cercare disperatamente informazioni. Le voci su rapimenti, distruzioni, esecuzioni sommarie si rincorrono incontrollate e una versione dei fatti univoca non esiste ancora.

 

Lungo il corso del fiume Khabur, nel nord-est della Siria, vicino al confine con la Turchia, si trovano 35 villaggi cristiani. Sono stati fondati quasi un secolo fa e prima che scoppiasse la guerra in Siria erano abitati da circa 30 mila fedeli, tutti profughi scappati dopo il massacro di Simele, quando il governo iracheno sterminò 3 mila cristiani assiri nel 1933. Quei villaggi, affacciati sulle rive del fiume, sono stati attaccati dallo Stato islamico lunedì 23 febbraio, poco prima dell’alba. Mentre le cittadine della sponda sud venivano occupate, nonostante la resistenza delle milizie assire e curde, quelle a nord si svuotavano, con gli abitanti che fuggivano nelle vicine Hassaké e Qamishli.

 

Nelle due città sono arrivati almeno tremila cristiani, un esodo che ricorda, almeno nella modalità, quello a cui sono stati costretti i 125 mila cristiani iracheni di Mosul e della Piana di Ninive: «Hanno fatto la strada a piedi, con addosso solo la pelle. E qui il freddo è terribile, non ci sono strade, ognuno ha preso la sua direzione per arrivare in città», parla in modo concitato padre Antranig Ayvazian, responsabile dell’eparchia armeno-cattolica di Qamishli e rappresentante del World Food Program delle Nazioni Unite nel nord-est della Siria. «Sono tutti spaventati, i racconti che mi hanno fatto sono terribili», dice a Tempi. Si parla di interi villaggi bruciati, case rase al suolo, chiese saccheggiate. Ma nessuno ha dati precisi. «Di sicuro due chiese sono state bruciate e tutti i simboli del cristianesimo sono andati distrutti: hanno demolito persino le croci sulle tombe dei cimiteri. Non hanno lasciato niente».

 

«Perché ci perseguitate?»

 

Chi non è riuscito a scappare, è stato rapito: le fonti più attendibili parlano di un minimo di 250 cristiani sequestrati, fino a un massimo di 373. Anche sulle vittime c’è confusione. Padre Antranig ha notizie certe di due cristiani decapitati, perché hanno osato dire: «Siamo civili, perché ci perseguitate?». Altri nove cristiani assiri sono sicuramente morti il giorno dell’attacco, come Milad Sammy Adam, che aveva 15 o 17 anni, colpito da un cecchino. Durante i funerali, sono stati definiti «martiri». La federazione assira di Svezia riferisce a Tempi di un uomo bruciato vivo: «Non voleva abbandonare casa sua. I terroristi gli hanno dato fuoco insieme alla sua abitazione», rivela Svante Lundgren. «Una famiglia che vive qui in Svezia ha sei parenti nelle mani dello Stato islamico. Hanno provato a contattarli ma non sono riusciti a parlare con loro. Una volta hanno risposto i terroristi, ma non c’è stata nessuna richiesta per il rilascio. Non sappiamo ancora che cosa vogliano. Ma siamo preoccupati». I contatti con i jihadisti sono già stati avviati: padre Antranig ci ha parlato di circa 65 persone liberate, ma ancora non al sicuro. L’arcivescovo Jacques Behnan Hindo, a capo dell’arcieparchia siro-cattolica di Hassakè-Nisibi, ha dichiarato invece che 19 cristiani del villaggio di Tel Goran sono salvi.

 

Le notizie contrastanti

 

Nell’angoscia causata dall’incertezza e da notizie contrastanti, i cristiani di tutta la Siria hanno colto benissimo la sostanza: «Siamo terrorizzati. Anche qui abbiamo paura di fare la stessa fine di quelli di Mosul, dei copti d’Egitto o degli assiri del nord-est». Scrive così a Tempi via e-mail Nabil Antaki (Maristi Blu), medico e direttore di uno degli ultimi due ospedali funzionanti ad Aleppo. Anche in quella che un tempo era la seconda città più importante della Siria, la situazione si fa ogni giorno più disperata. «Aleppo è divisa da luglio 2012 in due cerchi concentrici: il cerchio esterno, dove vivono circa 300 mila persone, è nelle mani dei gruppi armati (ribelli, al Qaeda, eccetera, ndr), mentre il cerchio interno è sotto il controllo dell’esercito governativo. Noi, come tutti i cristiani di Aleppo, viviamo nella parte interna che conta due milioni di persone, di cui 500 mila sono cittadini scappati dalla parte esterna».

 

Sbarcare il lunario è sempre più difficile perché i ribelli, la forza “moderata” finanziata anche dall’Occidente e che in molte zone del paese si è alleata con al Qaeda, controllano tutte le centrali e tagliano a piacimento agli abitanti acqua ed elettricità. «Conviviamo con la mancanza di acqua, che ci viene fornita un giorno su sette, e di elettricità, elargita un’ora ogni 24. Da sette giorni però ci hanno tolto anche quest’ora quotidiana. Non abbiamo neanche benzina o carburante: possiamo scaldarci solo con le coperte e da anni non avevamo più un inverno così rigido». Si parla molto in queste ore dell’arrivo a Damasco dell’inviato dell’Onu, Staffan De Mistura, per il raggiungimento di una tregua. Ma ad Aleppo ci si crede poco: «È da novembre che si discute di tregua, di “piano De Mistura”. Ma non abbiamo visto arrivare nulla».

 

La vita dei pochi cristiani che hanno deciso di restare, o che non sono riusciti a scappare, si fa sempre più pericolosa: «Ogni giorno, ripeto, ogni giorno cadono sulle nostre case colpi di mortaio che fanno morti e feriti». L’ultima pioggia di mortai è piombata nel quartiere centrale di Aleppo, vicino alla Cattedrale latina all’uscita della Messa delle 17, «ha ferito molte persone, subito trasferite in ospedale. Una giovane cristiana di 19 anni, Sima K., è morta». Un’altra «vittima innocente di questa cieca violenza» è Nour Assio, 25 anni, allenatrice di basket, che voleva fare di questo sport «il modo in cui glorifico e servo il Signore». Nour, che significa “luce”, «voleva la banda degli scout al suo matrimonio», ricorda padre Simon Zakarian. Ma il 7 febbraio un cecchino l’ha colpita alla schiena mentre usciva dal palazzetto dove insegnava. «Grazie cara Nour – continua il suo amico sacerdote – perché hai insegnato a tutti noi il significato dell’amore alla vita nonostante la guerra, la distruzione e la morte. Grazie perché ci hai insegnato che la vita deve andare avanti. Grazie cara Nour, perché sei nel regno di Dio e lì incontrerai tanti altri martiri, piccoli fiori cristiani della nostra amata Siria».

 

Un triste anniversario

 

Proprio in questi giorni cade un «triste anniversario» per la Siria, quello che segna l’entrata nel quinto anno da quando la guerra è iniziata nel marzo 2011. «Neanche i più critici verso il regime volevano questa guerra – conclude Nabil – nessuno dentro la Siria (ma non so fuori dalla Siria) voleva la distruzione del paese e la morte di almeno 250 mila persone, l’esodo di milioni di rifugiati e la sofferenza di otto milioni di sfollati». Neanche in una città come Homs, nella parte centro-occidentale del paese, dove da un anno è stata raggiunta una tregua, ci si sente al sicuro. «Ogni settimana spariscono almeno tre persone», testimonia a Tempi padre Ziad Hilal, gesuita siriano, parroco nella città. «Nella nostra parrocchia ne hanno rapiti quattro e da tempo non sappiamo più niente di loro. I cristiani sono sotto attacco come tutti gli altri cittadini».

 

C’è una ragione se i cristiani sono diminuiti in cinque anni «da 120 mila a circa 40 mila. A gennaio è scoppiata un’autobomba vicino all’università e alla nostra chiesa. Sono morte almeno 15 persone, tra cui tre cristiani. È una tragedia, le famiglie sono inconsolabili e io mi chiedo: dov’è la reazione del resto del mondo? Per quanto ne so io, nessuno ha detto una parola. Silenzio assoluto. La Siria e le sofferenze del suo popolo sono completamente dimenticate». Al suo grido di dolore, si aggiunge quello di padre Antranig, che si fa portavoce dei tanti cristiani assiri la cui vita è stata stravolta da un minuto all’altro: «Purtroppo l’Occidente continua ad aiutare i terroristi. Che scandalo! Che porcheria! Per noi nessuno fa niente, voi lasciate che questa gente attacchi i cristiani».

 

Ma «questi fratelli che soffrono per la fede in Siria e Iraq», come ha detto pregando per loro papa Francesco all’Angelus di domenica, «vittime di un’intollerabile brutalità», non raccontano solo una storia di orrore senza fine. La manifestazione di cieca crudeltà dell’Isis, che in un video di febbraio ha mostrato la decapitazione di 21 cristiani copti su una spiaggia della Libia, si è trasformata in una misteriosa glorificazione delle vittime. «Dopo il dolore e la rabbia, i parenti hanno realizzato che i loro familiari erano cristiani coraggiosi, che al pari degli altri martiri non hanno rinnegato la loro fede e così lo shock è mutato in senso di orgoglio», afferma fiero a tempi.it il vescovo copto-ortodosso di Minya, Anba Macarius. I 21 sono già stati proclamati martiri e saranno festeggiati dalla Chiesa copto-ortodossa il 15 febbraio. «Come nella tradizione dei martiri, anche loro hanno pronunciato il nome di Gesù Cristo prima di essere decapitati. In quel momento hanno pregato per i loro assassini, per i giudici che li hanno condannati e per i boia. Quando muovevano le labbra, chiedevano a Dio di confermarli nella fede e di perdonare i loro uccisori. Così hanno meritato il Regno dei cieli, come sta scritto nell’Apocalisse: “Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita”. Questo è il più grande caso di martirio cristiano del nostro tempo».

 

Tutti i giorni in chiesa

 

La loro testimonianza ha rafforzato anche i cristiani della capitale della Siria. «Un colpo di mortaio sparato sabato dai ribelli ha colpito l’ospedale francese di San Luigi, a pochi metri da casa mia». Samaan Daoud, guida turistica di Damasco prima della guerra, ci ha fatto quasi il callo ai missili e alle bombe: «A inizio febbraio hanno lanciato missili e mortai durante l’ora di punta, quando i bambini entrano a scuola e i padri in ufficio. Sono morte almeno una dozzina di persone, compreso un ragazzo di 16 anni seduto in un parco. Un’altra ragazzina ha perso entrambe le gambe». Lui però continua a vivere: «Puoi fare solo due cose: o resti chiuso in casa nella disperazione o vai avanti e da vero cristiano testimoni la tua fede senza rassegnarti alla paura», dice a Tempi. «Ora siamo nel periodo pasquale, la gente va tutti i giorni in chiesa e questo un po’ ci rafforza e ci ridona fiducia. Non vogliamo cedere ai terroristi e anche se il loro obiettivo è cacciarci, noi portiamo la nostra croce con coraggio».

 

(Leone Grotti, Tempi, 08/03/2015)

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