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Dove si muore per Dio!
Dove si muore per Dio!
È una folla eterogenea quella che la domenica mattina attraversa il quartiere di Youhanabad, a Lahore, per recarsi a messa. Il cortile della chiesa è gremito di gente e alla spicciolata i fedeli entrano nel tempio. Sono molti i cattolici di Lahore; nel solo quartiere di Youhanabad sono più di 40mila e sono la rappresentazione di un orgoglio degli ultimi elevato a condotta di vita senza compromessi. La chiesa, infatti, nel marzo 2015 è stata al centro di un attacco kamikaze dei talebani e ogni domenica, ancor oggi, pregare un Dio discriminato significa esporsi a una perpetua minaccia e a un possibile attacco di un esercito invisibile, forgiato nell’odio e nel parricidio di ogni rimorso umano.

 

Arrivano a piedi e in richò i credenti, si sottopongono ai controlli di sicurezza e poi entrano nel cortile della parrocchia. Non è un atto di coraggio fine a se stesso, un abbandono senza condizione all’affronto della paura. È altro. Perché la Cattedrale di Saint John, con ancora i simboli dell’esplosione impressi sui muri, con le ferite nella pelle di chi quella domenica di marzo era presente, è il frontone dell’anima violentata di un’intera comunità. Eccoli quindi i padri con i bambini per mano, le donne con veli dai colori dell’iride pregare alla statua della Vergine, eccoli varcare la Chiesa con l’imperativo di esserci, per non accettare una violenza mirata alla remissione della propria identità e alla prigionia di una vita sottomessa alla negazione di se stessi.

 

Fuori dalla Chiesa e sui tetti circostanti, volontari armati con fucili a canne mozze, Ak47 e pistole automatiche, presidiano ogni via e ogni movimento. In Pakistan la guerra non c’è e allo stesso tempo é presente: è una questione di prospettive. Punti di vista che dipendono dalla causalità di essere nati in grembo a una madre che pregava un Dio non accettato o di un’altra che salmodiava l’aiuto di un Supremo che, oggi, a certe latitudini, viene invocato per accogliere una nuova vita, ma anche per benedire la morte altrui.

 

È lo stesso Pakistan, figlio della partizione dell’India britannica del 1947, ad essere nato in seno a una spaccatura religiosa. La storia del Paese è travagliata, fatta di difficili equilibri etnici, di interessi geopolitici internazionali, di colpi di stato che si susseguono e di un conflitto sempre pressante alle frontiere: sia sul fronte indiano, che sul lato afghano. È negli anni ’70, nelle logiche della Guerra Fredda, che però avviene l’involuzione islamista che trascina la ”terra dei puri” ad essere l ‘incubatrice del terrorismo di forma odierna e la culla del fanatismo talebano.

 

Il governo di Bhutto viene abbattuto dal putsch di Mohammed Zia che incomincia a islamizzare la società, introducendo anche il carcere a vita per chi ha un atteggiamento irrispettoso nei confronti del Profeta e del Corano. Pena che nell’86 viene sostituita dall’esecuzione capitale. Il Pakistan si avvicina sempre più a posizioni estremiste e all’interno della guerra dei blocchi diviene il Paese deputato ad accogliere e preparare i mujaheddin afghani. Gli americani finanziano i guerriglieri in chiave anti sovietica, i sauditi investono capitali e aprono madrasse in ogni dove per diffondere il credo waabbita e la presenza delle due componenti sfocia nella nascita dei talebani che nel territorio pakistano trovano terreno fertile. La radicalizzazione islamica, negli anni, diviene sempre più pressante e manifesta, soprattutto dopo l’11 settembre. Il primo ministro Benazir Bhutto viene assassinata per le sue posizioni contro i talebani, Shabhaz Bhatti, ministro delle minoranze e unico cattolico all’interno del governo del presidente Zardari, anch’egli è ucciso e la stessa sorte tocca a Salmaan Taseer, governatore del Punjab, che si era opposto alla legge contro la blasfemia.

 

E proprio la legge contro la blasfemia è lo strumento principale attraverso cui avviene la discriminazione nei confronti delle minoranze religiose e, negli ultimi 25 anni oltre 1000 persone sono finite a processo. Il caso più noto è quello di Asia Bibi, donna cristiana che lavorava nei campi di Lahore e che è stata denunciata da un gruppo di contadine musulmane, che l’hanno accusata di aver offeso Maometto. Da 7 anni è in carcere in attesa della sentenza capitale.

 

Il Pakistan è anche il Paese del terrorismo, oltrechè della discriminazione, e dal 2001 al 2014 è stato il terzo Paese più colpito al mondo da azioni terroristiche che hanno provocato 18mila morti. Ad agire: i gruppi talebani; ma ora, nella regione del Waziristan, l’Isis ha dichiarato di aver aperto centri di addestramento e Tehrik-i-Taliban Pakistan, il braccio talebano pakistano, ha deciso di avvicinarsi al Daesh. Ad oggi le azioni e gli attentati però portano tutte la firma degli ”studenti”, proprio come l’attentato contro la Chiesa di Lahore a Youhanabad della domenica del 15 marzo 2015, quando oltre 15 persone persero la vita e i feriti furono più di 70.

 

Youssef Rahmad e Qaiser Pervaiz erano due delle guardie che quel giorno vennero coinvolte nell’attacco. Partecipano oggi alla funzione nella chiesa di Saint John insieme alle centinaia di cristiani, ascoltano le parole di padre Francis Gulzar che dall’altare dice ai fedeli ”San Tommaso è arrivato sin qua, in Pakistan, e noi siamo i suoi figli. Non dobbiamo mai avere paura, perché la nostra fede è più forte di ogni terrorismo”. Poi, terminata la messa, difronte a una tazza di chai, rievocano quanto accaduto nella domenica di sangue di un anno prima. Youssef era una delle guardie che presidiavano l’ingresso al tempio. È stato il primo ad essere ferito dalle pallottole del kamikaze del gruppo Jamaat ul Ahrara e ancor oggi mostra le cicatrici sul corpo. ” Lui ha sparato, io ho risposto al fuoco e sono riuscito a colpirlo, ma l’ho preso di striscio e quindi l’attentatore è arrivato al cancello, dove si è fatto esplodere”.

 

Al momento dell’esplosione la deflagrazione ha investito anche un trasformatore dell’alta tensione, il liquido bollente è schizzato in ogni dove travolgendo Qaiser che mostra i segni delle ustioni, delle schegge e delle operazioni subite e le indica con ascetica tranquillità, soffermandosi in modo solenne su ogni sfregio di quel suo corpo divenuto un libro su cui è stato scritto un capitolo indelebile di un odio religioso senza concessioni. Raccontano degli attimi di paura, dei corpi esanimi e poi evocano il nome di Akash Bashir. Lo ringraziano e lo pregano e dicono che se oggi i loro figli, i parenti e gli amici sono vivi, è grazie a lui.

 

Il volto di Akash, un ragazzo 19enne cristiano, è nelle case dei fedeli, all’ingresso della chiesa, lo si trova in ogni dove a Youhanabad e una gigantografia lo ritrae proprio là dove è stato ucciso. I genitori lo chiamano eroe e dicono che era un figlio modello; l’intera comunità lo ringrazia e lo prega come un santo. Akash è il ragazzo che il 15 marzo si è stretto al terrorista rimanendo aggrappato a lui per impedirgli di entrare in chiesa e provocare la strage ed è sempre rimasto avvinghiato all’attentatore, anche quando questi ha azionato la cintura esplosiva.

 

È un racconto che provoca commozione, è la vita propria donata per quella degli altri, è il volto di sua madre che insegna il perdono e invita all’inclemenza nei confronti del rancore, è purezza di fede primigenia nel cuore del Pakistan; è, il nome di un ragazzo cristiano che, per salvare dei fratelli, è morto sfregiando l’odio, con un estremo gesto di misericordia, sacrificando la propria vita, stretto in un abbraccio senza fine con il proprio assassino.

 

(Daniele Bellocchio, GliOcchidellaGuerra, 19/07/2016)
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