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Asia: perseguitate etnie e religioni!
Asia: perseguitate etnie e religioni!
Gli occhi del mondo sono rimasti esterrefatti nell’osservare l’esodo massiccio degli oltre 580.000 Rohingya in fuga dalla violenza inflitta loro gratuitamente dai militari in Myanmar. E la vicenda non è ancora conclusa. Molte altre persone ne saranno vittime e molti ancora saranno costretti a fuggire per salvarsi da una delle più gravi crisi umanitarie in Asia dalla fine della guerra del Vietnam nel 1975.

 

Le attuali sfide – come offrire alloggio e nutrimento a oltre mezzo milione di persone che cercano asilo – non faranno altro che crescere mentre nella regione ci si domanda che cosa fare con e per questi poveri disperati. Rimarranno dove sono? Saranno rimpatriati? Chi sarà ritenuto responsabile di questi crimini esecrabili contro questa minoranza disprezzata in un paese già instabile e impoverito da cui è fuggita – il Myanmar?

 

Non solo i Rohingya

 

La sorte dei Rohingya è solo una piccola parte di qualcosa che è presente non solo in Myanmar ma in molte aree dell’Asia. La repressione contro i gruppi minoritari religiosi ed etnici è attuata dalla maggioranza presente nella regione.

 

I Rohingya vivono in una situazione e soffrono di una condizione che lascia intravedere la natura della persecuzione religiosa ed etnica sofferta dai membri di tutte le maggiori religioni dell’Asia – cristiani, musulmani, buddisti e indù.

 

La maggior parte degli asiatici vive entro confini definiti soltanto a partire dal 20° secolo. Ad eccezione della Cina, della Repubblica insulare dell’Indonesia e delle Filippine, la maggior parte dei cittadini hanno dei confini che sono stati stabiliti dai loro colonizzatori o da coloro che sono loro succeduti al momento dell’indipendenza. Entro questi confini continuano a ribollire rivalità religiose ed etniche e ostilità non risolte. Il Myanmar è un caso tipico. La maggior parte dei Rohingya erano venuti a lavorare in Birmania su invito degli inglesi agli inizi del secolo 19°, anche se essi rivendicano un’eredità nel paese che risale a un millennio fa. Sono musulmani e sono vissuti principalmente nello stato di Rhakine (uno Stato della Birmania, ad ovest del paese). Ma qui ci sono altri musulmani non Rohingya, assieme a buddisti e indù.

 

Il governo militare del Myanmar ha ripetutamente attaccato per decenni i Rohingya, non ha mai garantito loro la cittadinanza e ha cercato di cacciarli dal paese. I Rohingya costituiscono solo una delle 135 minoranze etniche riconosciute in un paese multilingue, multiculturale e multireligioso.

 

Il trattamento dei Rohingya ha l’approvazione della più ampia comunità buddista; la repressione è innescata dall’aggressivo nazionalismo buddista alimentato da monaci estremisti e da altri che sono paladini di una definizione fortemente identitaria ed esclusiva di ciò che significa essere cittadino del Myanmar. Il card. Charles Bo di Yangoon è giunto a dire che i Rohingya costituiscono il capro espiatorio delle lamentele e dei conflitti che affliggono l’insieme della popolazione.

 

Ma i Rohingya sono solo uno dei gruppi trattati in questo modo in Myanmar. Sul loro livello, ben 17 guerre civili sono state combattute nel paese; all’ interno del territorio ci sono 500.000 persone sfollate (molte dagli stati del Myanmar a maggioranza cristiana) e altri 120.000 che cercano asilo oltre i confini del Myanmar nella Thailandia del nord.

 

Accade in Cina

 

L’appartenenza etnica e la religione si coniugano nella vicina Cina nell’originare alcuni tra i suoi punti nevralgici di ricorrente malessere. Il Tibet è la patria del Dalai Lama da cui è fuggito nel 1959 per rifugiarsi in India e i tibetani rappresentano un loro gruppo etnico distinto.

 

Il governo della Repubblica democratica della Cina (PRC) non ha mai accettato che nessun altro potesse reggere il Tibet al fuori di se stessa, servendosi del modo tradizionale con cui la sua politica estera ha sempre operato, cioè mediante la creazione di stati-cuscinetto ai suoi confini, in questo caso con l’India.

 

Con il controllo esercitato dalla Repubblica popolare cinese è stata attuata una progressiva “hanificazione” del Tibet: cioè, attraverso l’immigrazione del gruppo maggioritario cinese degli Han.

 

I tibetani si trovano di fronte alla negazione della libertà basilare di parola, di riunione e di movimento, e il più grande monastero tibetano in Cina, Larung Gar, è continuamente distrutto.

 

Sviluppi analoghi si possono costatare anche nella regione autonoma dello Xinjiang, patria dei musumani uiguri, giunti in Cina attraverso la leggendaria via della seta dalla Turchia attuale.

 

«È difficile vedere come le cose possano andare peggio in termini di libertà di religione in Tibet e nello Xinjiang, ma è cosa che potrebbe accadere», ha affermato William Nee, responsabile dell’agenzia di ricerca Amnesty International per la Cina, con sede a Hong Kong.

 

«In certo senso queste regioni servono come “piastre di Petri” (recipienti cilindrici trasparenti dove si effettuano colture di cellule, ndr), per sperimentare modalità nuove di estremo controllo… e se il governo vede che queste politiche funzionano bene le potrà usare anche per altre popolazioni».

 

Molte di queste restrizioni sono partorite dal cervello del segretario del Partito, Chen Quanguo, il quale era stato trasferito dal suo posto in Tibet, perché il governo lo aveva riconosciuto quanto mai abile nel soffocare i disordini nello Xinjiang, lo scorso anno.

 

Nello Xinjiang ci sono stati dei controlli porta a porta per vedere se la gente aveva del materiale religioso o se pregava. Le autorità hanno spesso fermato, a quel che si dice, delle persone a caso per verificare cosa c’era nei loro telefoni, mentre, sempre stando a quanto si dice, sono aumentate nella regione le strutture di detenzione dei ministri del culto in vista della cosiddetta rieducazione.

 

Quale futuro per le religioni in Cina

 

Al recente 19° Congresso di ottobre, appena concluso, il presidente cinese Xi Jinping ha operato un rimpasto del suo governo, scegliendo le persone centrali del suo Politburo.

 

In seguito al congresso, gli osservatori dei diritti umani temono che, dato l’attuale corso del governo cinese, la situazione delle minoranze religiose del paese diventi ancor più burrascosa. «A questo punto, l’impulso del governo cinese a stringere il controllo in tutti i campi – compresa la religione – lascia intravedere una cupa prospettiva per la libertà religiosa in Cina per gli anni a venire», ha dichiarato all’agenzia ucanews.com Maya Wand ricercatore senior del settore per l’Asia di Human Rights Watch.

 

«Mi aspetto che il governo continui ad imprimere una maggiore “sinizzazione” sulle religioni. Ciò significa che il governo continuerà la sua campagna per restringere gli influssi stranieri, i legami e i finanziamenti delle religioni in Cina», ha dichiarato Wang, rilevando che questa è già la tendenza che si nota sia nello Xinjiang sia nel Tibet.

 

Questa religione sinizzata comprende la pratica della vita cristiana sotto la supervisione dell’Associazione della chiesa patriottica cinese (CPA’s), un organismo creato dall’amministrazione statale per gli Affari religiosi (SARA). Il rifiuto da parte di questo organismo di riconoscere il Vaticano induce molti cattolici a vivere illegalmente il loro culto in maniera sotterranea.

 

Nel luglio scorso, il direttore del SARA, Wang Zuoan, ha chiesto a tutti i membri del partito comunista di abbandonare la religione. Wang ha detto loro che era vietato sostenere la religione per scopi di sviluppo economico o culturale.

 

Nell’ aprile dello scorso anno, Xi con grande anticipo, ha steso un progetto su come il governo dovrà trattare le religioni d’ora in avanti – e la prognosi è fosca poiché il presidente cinese ha insistito molto sul fatto di limitare le libertà religiose restringendo nello stesso tempo il potere del partito comunista.

 

«Il progetto sottolineava i temi religiosi guida per il governo del partito comunista: il diritto del governo di regolare strettamente la religione, la “sinizzazione” della dottrina religiosa, la prevenzione dell’“infiltrazione” straniera della religione, la garanzia che i quadri del partito comunista siano atei fidati», così ha dichiarato William Nee di Amnesty International all’agenzia ucanews.

 

Nee ha aggiunto: «Ci vorranno diversi anni prima che questo progetto sia attuato nei dettagli, perciò prevedo maggiori restrizioni circa la religione quando saranno messe in atto politiche dettagliate e istituito il personale».

 

La situazione in Pakistan

 

Il subcontinente asiatico presenta altre reti per costringere in nodi molto stretti l’etnicità, il nazionalismo e la religione. Il Pakistan è il luogo della violenza motivata dalla religione – musulmani contro musulmani e musulmani contro cristiani e indù – tutti presi di mira dalle note leggi sulla blasfemia.

 

Introdotte negli anni ’80, queste leggi permettono ad un musulmano di accusare altri (musulmani, cristiani, indù) di profanare il profeta Maometto e, senza il giudizio o i limiti della polizia o dei tribunali, di punire la presunta blasfemia in nome del profeta. Una volta dichiarata la Fatwa, non esiste più protezione e l’unica opzione possibile è la fuga.

 

Un altro fattore che complica la situazione in Pakistan e anche nella maggioranza musulmana del Bangladesh è l’internazionalizzazione dell’islam militante. Varianti e fazioni dei gruppi terroristi internazionali hanno messo piede in ambedue i paesi e l’Arabia Saudita sponsorizza lo sviluppo del suo stesso estremismo islamico – il wahabismo – con miliardi di dollari donati specialmente al Bangladesh per costruire moschee e madrase o scuole islamiche.

 

E in India?

 

Il nazionalismo religioso e la persecuzione hanno trovato un terreno fertile in cui prosperare anche in India. L’India è un vasto complesso di idiomi, di eredità etniche e di religioni. Dopo l’Indonesia e il Pakistan ha il più alto numero di musulmani (172 milioni) rispetto ad ogni altro paese del mondo.

 

È un paese dove esistono considerevoli minoranze religiose – i cristiani stimati a circa 30 milioni di cui 19 i cattolici, i sikh con 20 milioni e circa 10 milioni di buddisti nel paese dove è nato Buddha.

 

Il governo federale di Narendra Modi ha i suoi affiliati al comando di una maggioranza di governi di stato e ci si attende che altri abbiano a seguirne l’esempio. Il partito guida a livello nazionale – il pro-Indu Bharatiya Party (BIP) – ha la sua sala macchine ideologica nella fanatica Rashtriya Swayamesevak Sangh. Questo potente gruppo socio-religioso indù costituisce la fonte dell’orientamento nazionalistico del BJP, che significa “Partito del popolo indiano”.

 

Attualmente sei stati governati dal BJP hanno emanato delle leggi per contrastare le conversioni religiose. L’ultimo nell’ordine è lo stato di Jharkhand, con una legge che criminalizza le conversioni e che i non-indù, specialmente i cristiani, considerano come lo strumento usato dagli indù per prendere di mira i cristiani.

 

Il Jharkhand è cristiano per il 4,5%, circa il doppio della media nazionale che è del 2,3%. Tuttavia, i cristiani continuano ad essere un’esigua minoranza dopo oltre un secolo di attività missionaria. Ci sono qui 1 milione e 400 mila cristiani su una popolazione di 33 milioni di abitanti, in gran parte tribali o appartenenti a coloro che prima erano conosciuti come caste “intoccabili”.

 

Il primo ministro dello Jharkhand, Raghuvar Das, ha esercitato una pressione per questa legge fin dal dicembre 2014, quando il suo partito e i suoi partner di coalizione giunsero al potere. La legge contro le conversioni forzate o per allettamento prevede fino a tre anni di carcere e una multa di 50.000 rupie (800 dollari USA).

 

Coloro che desiderano convertirsi devono informare l’ufficiale capo del distretto circa le ragioni e il luogo della conversione oppure rischiare il processo. Ci sono punizioni più severe se si usa la “forza” per convertire i minori e le donne come pure gli appartenenti alle minoranze tribali e alle caste inferiori.

 

In altri stati gli estremisti indù avrebbero abusato della legge per raccogliere false accuse contro alcuni pastori e per intimidire i cristiani. Spesso considerano le opere missionarie cristiane, quali l’educazione e i servizi sanitari, come un allettamento o costrizione per ottenere delle conversioni tra i poveri nonostante la grande maggioranza dei beneficiari sia composta da non cristiani.

 

Altre aree di persecuzione religiosa

 

Le Filippine, l’Indonesia, la Cambogia, il Laos e la Malaysia sono anch’essi aree dove esistono vari tipi di persecuzione.

 

Nelle Filippine, paese a grande maggioranza cristiana, per esempio, il ribelli del Fronte di Liberazione Islamico Moro sono in guerra contro il governo da almeno quattro decenni.

 

In Indonesia di recente, grandi proteste da parte di gruppi musulmani radicali hanno portato all’arresto del governatore cristiano cinese di Jakarta, Basuki Tjahaja Purnama, per presunta blasfemia. Ciò è stato considerato da molti come un tentativo dei gruppi militanti per minare la costituzione laica del paese.

 

Anche la Malaysia è alle prese con leggi che garantiscano che la maggior parte dei suoi programmi e della sua politica sia in armonia con le leggi islamiche.

 

In Laos e in Cambogia, la persecuzione potrebbe essere determinata da un certo numero di fattori comprendenti la razza, l’appartenenza etnica, l’opinione politica o la religione, problemi riguardanti l’apoliticità, o le preoccupazioni relative al genere.

 

Tuttavia, in nessuno di questi paesi esiste un sistematico livello, talvolta ritenuto legittimo, di pregiudizi e di persecuzione come invece sono chiaramente evidenti in Myanmar, Cina e India.

 

L’unico punto luminoso in Asia è la riduzione della persecuzione etnica e religiosa nello Sri Lanka dove decenni di guerra civile si sono conclusi ufficialmente nel 2009, quando il governo sconfisse i guerriglieri Tamil del nord del paese.

 

Anche se ci sono ancora dei conflitti e una certa violenza tra i Tamil (spesso indù) e i cingalesi (in gran parte buddisti) il grado devastante di rivalità etnica e religiosa è una cosa del passato.

 

La maggior parte delle società, culture, governi e religioni in Asia sono dei cantieri aperti. Il livello e la misura della persecuzione, di solito collegata con l’aspetto etnico, mostra un lieve segno di rallentamento.

 

(Michael Kelly, SettimanaNews, 03/11/2017)
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I dati del Rapporto di ACS, tra gennaio 2021 e dicembre 2022, parlano chiaro. Nel mondo, in un 1 Paese su 3, il diritto alla libertà religiosa non è pienamente rispettato. Vale a dire in 61 nazioni su 196. In totale, quasi 4,9 miliardi di persone, pari al 62% della popolazione mondiale, vivono in nazioni in cui la libertà religiosa è fortemente limitata.

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