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Nigeria, la storia di Semo: «I miei giorni prigioniera di Boko Haram»
Nigeria, la storia di Semo: «I miei giorni prigioniera di Boko Haram»

Ha 10 anni. Con altre nigeriane è stata rapita dai miliziani integralisti. Per otto mesi è rimasta nella foresta. Poi è fuggita:«Ho visto troppe cose che non riesco a dire»

 

«Li ho visti con i miei occhi entrare nelle case e uccidere gli uomini: sgozzandoli, sparando oppure bruciandoli vivi. Un giorno noi ragazze eravamo al fiume a prendere l’acqua. Ci siamo messe a correre per scappare, ma ci hanno accerchiate. Dal nostro villaggio di Gova ci hanno portate a Goshe, poi nella foresta di Sambisa. Ci tenevano in capanne di lamiera. Ci insegnavano il Corano. Ci davano da mangiare tre o due volte al giorno: riso, mais o yam, le patate dolci. Poi, di notte prendevano con sé alcune ragazze più grandi, le riportavano solo al mattino. Io piangevo e loro mi chiedevano perché, ma restavo in silenzio. Pensavo ai miei genitori».

 

Semo Sunday, 10 anni, è una delle ragazze rapite in Nigeria da Boko Haram: almeno 2.000 negli ultimi due anni, secondo Amnesty International. Per otto mesi è stata prigioniera nella foresta. Parla a testa bassa, evitando i tuoi occhi, gracile nella maglietta troppo grande ma pulita, nonostante la sporcizia intorno. Semo è fortunata: a differenza di tante altre ragazze tra cui le famose 200 di Chibok, rapite dal dormitorio della scuola nel 2014, lei è riuscita a scappare un mese fa, con un gruppo di ragazze più grandi, approfittando dell’oscurità e dell’erba alta nei campi abbandonati. Nel campo per sfollati ospitato dalla diocesi cattolica di Santa Theresa a Yola, la bambina volge lo sguardo ai coetanei, che corrono con le mani impastate di moi moi, il brodo di fagioli che cuoce in un grande pentolone, ma la sua mente è altrove. Ha incubi ricorrenti: «Ho visto troppe cose che non riesco a descrivere».

 

Yola, nello stato di Adamawa, è la prima linea del fronte nella crisi umanitaria causata dal conflitto con Boko Haram in Nigeria. In questo piccolo centro nel Nordest del Paese, si sono rifugiati 400mila sfollati, numero superiore agli abitanti: 41 campi informali sono spuntati come funghi accanto ai 4-5 predisposti dal governo. A Santa Theresa sono quasi tutte donne cristiane, con sei-sette figli a testa: mariti e padri sono stati quasi tutti massacrati. «Le donne no, le usano per partorire nuovi soldati», spiega Cecilia Peter, 35 anni.

 

I miliziani, recentemente affiliatisi all’Isis, vogliono creare un califfato nel nord-est della Nigeria. Un conflitto iniziato nel 2009 e inaspritosi negli ultimi due anni, con oltre 20mila morti, 1,5 milioni di sfollati, 230mila profughi in Niger, Camerun, Ciad. La scorsa settimana il commissario europeo per gli aiuti umanitari Chrīstos Stylianidīs ha promesso 21 milioni in più per la crisi: 12,5 per la Nigeria (il totale per il 2015 sarà 20,5). Nello stato di Adamawa – uno dei tre insieme a Yobe e Borno dove nel 2013 è stato dichiarato lo stato di emergenza – massacri, kamikaze e rapimenti di massa sono diventati minacce quotidiane. I miliziani hanno colpito chiese e moschee, stazioni degli autobus e mercati, ospedali e scuole che rappresentano l’odiata istruzione occidentale. Gli operatori umanitari nigeriani, come Hassan Coulibaly dell’International Rescue Committee (Irc) e il suo staff, uno dei partner dell’Ue, sono nel mirino: a ottobre sono scampati alla strage nel villaggio di Mubi, fuggendo a piedi in Camerun. «Scappavano anche i soldati. Si strappavano la divisa di dosso, supplicavano che dessimo loro degli abiti civili».

 

Nelle ultime settimane della presidenza di Goodluck Jonathan (criticato per l’incapacità di fronteggiare la crisi) e dopo l’elezione a marzo di Muhammadu Buhari, i successi dell’esercito hanno consentito il ritorno di alcuni sfollati, ma altri hanno paura: i miliziani sono capaci di attaccare, come hanno fatto nel mercato di Yola il 5 giugno. Tra le bancarelle di frutta e di jeans, davanti al negozio di elettrodomestici del 23enne Abdel Karim Amadu, un palo metallico porta i segni delle schegge. Lui ha una cicatrice sul volto: mostra la foto del fratello Kabiru Adamu, 30 anni, studente, ucciso con altre 30 persone. «Il kamikaze ha finto di voler comprare qualcosa, poi ha iniziato a litigare sul pagamento. Una lite studiata, per attirare più persone possibile prima di farsi esplodere. Il governo deve darci maggiore sicurezza», dice con gli occhi lucidi.

 

A maggio a Yola nel campo di Malakhoi sono arrivate 677 donne salvate dalla foresta di Sambisa: diverse incinte. Non sono più qui. «Trasferite per ragioni di sicurezza». Molti sperano che non siano le ultime. Ruth Ndayem, 65 anni fa la maglia e vende gomme da masticare per pagarsi il viaggio di ritorno al villaggio di Michika, ma spera che prima o poi il nipotino dodicenne venga strappato alle grinfie di Boko Haram. Ne hanno fatto probabilmente un soldato. L’esercito lo restituirà alla famiglia? Amnesty ha denunciato la morte in detenzione, sotto tortura, di 8.000 persone nella lotta contro Boko Haram. Il ritorno non è semplice nemmeno per le ragazze, cristiane o musulmane. «Le riprenderemo con noi come Semo, ma non senza sospetti: forse la loro personalità è cambiata», dice John Yakubu a Santa Theresa. «Se sono incinte, sarebbe meglio che abortissero».

 

Il sarto Abdullahi Mohammad, musulmano, racconta che a molti musulmani viene presentata la scelta tra la morte e unirsi a Boko Haram. «Mio fratello è stato ammazzato perché ha rifiutato, mia sorella rapita». Se incinta potrebbe tornare? Scuote la testa.

 

Negli slum senza strade asfaltate della capitale Abuja, incontriamo le famiglie di tre ragazze di Chibok. Il salvataggio delle 677 donne di Yola ha riacceso in loro la speranza. Esther Yakubu sogna spesso la liberazione della figlia Dorcas, 15 anni. Come regalo per la fine degli studi le aveva comprato una macchina da cucire: doveva essere una sorpresa. E’ rimasta a Chibok, insieme ai suoi sogni.

 

(Viviana Mazza, CorrieredellaSera, 24/06/2015)
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